Le feste come specchio dei legami familiari

Natale è famiglia: quanto i legami ci condizionano e quante aspettative portiamo alle feste?

Il Natale è spesso raccontato come il tempo della famiglia, della condivisione e della serenità. Le immagini che ci accompagnano – tavole imbandite, sorrisi, abbracci – costruiscono un’idea precisa di come dovrebbe essere questo periodo.

Eppure, per molte persone, il Natale è anche un tempo emotivamente complesso, carico di aspettative, tensioni e talvolta di sofferenza silenziosa.

In psicoterapia, il periodo delle feste è spesso un momento in cui emergono con più forza nodi personali e relazionali che durante l’anno rimangono sullo sfondo.

La famiglia come luogo affettivo… e come luogo di condizionamento

La famiglia è il primo contesto relazionale in cui cresciamo. È lì che impariamo chi siamo, che valore abbiamo, cosa ci si aspetta da noi e quali emozioni sono ammesse.

I legami familiari sono profondi e, proprio per questo, potentemente condizionanti.

Anche da adulti, quando torniamo “a casa per Natale”, non torniamo solo fisicamente: torniamo in ruoli antichi, in copioni relazionali già scritti, in dinamiche che spesso non scegliamo consapevolmente.

C’è chi torna a sentirsi “il figlio che non fa mai abbastanza”, chi “quella che deve tenere tutti insieme”, chi vive il richiamo implicito a essere come gli altri si aspettano, pena il senso di colpa o il conflitto.

Le aspettative natalizie: tra desiderio e obbligo

Il Natale è carico di aspettative: aspettative di armonia, di felicità, di riconciliazione, di presenza e disponibilità emotiva.

Spesso queste aspettative non sono esplicitate, ma vengono date per scontate: “È Natale, dovremmo stare bene”, “È Natale, bisogna esserci”, “A Natale non si litiga”.

Quando però la realtà emotiva non coincide con l’ideale, può emergere un forte senso di inadeguatezza:

“Se sto male proprio ora, c’è qualcosa che non va in me”.

In realtà, il disagio che molte persone provano durante le feste non è un fallimento personale, ma il segnale di un conflitto tra ciò che sentono e ciò che credono di dover sentire.

Quando i legami diventano più pesanti nelle feste

Le festività amplificano tutto: le relazioni già fragili diventano più tese, i conflitti irrisolti tornano a galla, le differenze generazionali si accentuano e le ferite del passato trovano più spazio.

In particolare, chi ha vissuto famiglie poco sintonizzate emotivamente, oppure relazioni segnate da mancanze, critiche o rigidità, può sentire il Natale come un momento di esposizione forzata: troppo vicini, troppo a lungo, senza vie di fuga.

Il Natale come occasione di consapevolezza

Dal punto di vista psicoterapeutico, il periodo natalizio può diventare un’occasione preziosa di osservazione interna.

Le emozioni che emergono – fastidio, tristezza, rabbia, nostalgia, ansia – parlano di bisogni profondi, spesso antichi.

Potremmo chiederci: Cosa mi pesa davvero del Natale? Da cosa mi sento obbligato/a? Quale ruolo sento di dover interpretare? Cosa desidererei, se potessi scegliere liberamente?

Questo può aiutare a distinguere tra il legame affettivo e il legame condizionante.

Psicoterapia: dare spazio a ciò che non trova posto a tavola

La psicoterapia offre uno spazio in cui le emozioni “scomode” delle feste possono essere finalmente accolte, senza il bisogno di minimizzarle o di giustificarle.

È un luogo in cui si può iniziare a rivedere il modo in cui i legami familiari continuano a influenzare scelte, vissuti e confini personali.

Non si tratta di “allontanarsi dalla famiglia”, ma di differenziarsi emotivamente: imparare a restare in relazione senza perdere sé stessi.

Un Natale possibile, non perfetto

Forse il Natale non deve essere per forza felice, ma può essere solo abbastanza autentico, con meno obblighi e più ascolto, meno aspettative ideali e più rispetto per ciò che davvero sentiamo.

Accettare che le feste possano muovere emozioni contrastanti è già un passo verso una maggiore libertà interiore.

E, a volte, è proprio riconoscendo i nodi che il Natale porta alla luce che diventa possibile iniziare un cambiamento più profondo.

Il primo giorno di scuola

Il primo giorno di scuola è un momento speciale, carico di emozioni per bambini e genitori. Si rientra dai ritmi lenti delle vacanze a una routine più frenetica fatta di attività e impegni. Un po’ di preparazione e di ascolto può fare la differenza. 

1. Parlate insieme dei cambiamenti 

Provate a condividere aspettative e paure, ricordando che mostrare interesse riduce l’ansia: In particolare prova a chiedere a tuo figlio cosa immagina di questo anno scolastico? Cosa lo incuriosisce? Cosa invece lo preoccupa? 

2. Create piccoli rituali rassicuranti 

Una colazione speciale, una frase di incoraggiamento o un abbraccio più lungo del solito possono dare continuità e sicurezza. 

3. Preparare insieme lo zaino 

Sistemare insieme materiali e quaderni trasmette senso di responsabilità e fa sentire il bambino parte attiva del suo percorso. 

4. Trasmetti fiducia 

Evita frasi come “Speriamo che vada bene”, piuttosto sostituiscile con “So che ce la farai”, “Sono certo che troverai cose belle”. La fiducia dei genitori è contagiosa. 

5. Accogli le emozioni al ritorno 

Quando il bambino tornerà a casa, ascoltalo senza giudicare o minimizzare. Le emozioni — positive o negative — sono tutte importanti e meritano spazio. 

Piccolo esercizio per i genitori: 

La sera prima, scrivi un breve messaggio di incoraggiamento su un bigliettino e nascondilo nello zaino: sarà una sorpresa preziosa durante la giornata. 

■■■■ Risorsa a cura della Dott.ssa Maura Maria Schiavetta 

Psicoterapeuta individuale e di coppia – Milano

Rientro dalle vacanze: un nuovo incontro con sé stessi e con l’altro

Le vacanze sono spesso vissute come una parentesi sospesa: un tempo “altro” che rompe i ritmi quotidiani e ci restituisce spazi di libertà, leggerezza e contatto con ciò che ci fa stare bene.
Quando però finiscono, non torniamo semplicemente dove eravamo: torniamo cambiati.

Ogni viaggio — anche breve — ci mette in contatto con parti di noi che, nella routine, rimangono più silenziose: desideri, nuovi ritmi, un diverso modo di stare con l’altro o con noi stessi. Al rientro, queste parti non scompaiono: ci accompagnano e ci chiedono spazio.

Proprio in questo punto di passaggio, quando il sé vacanziero incontra il sé quotidiano, possono nascere emozioni contrastanti: nostalgia, fatica, entusiasmo, voglia di cambiamento. È un momento prezioso per fermarsi e ascoltarsi.


1. Il rientro come spazio di trasformazione

Spesso pensiamo che rientrare significhi “riprendere da dove avevamo lasciato”, ma psicologicamente non è così.
La pausa estiva non è solo riposo: è una esperienza trasformativa che ridistribuisce energie psichiche, ci permette di esplorare nuove modalità relazionali e di rimettere in discussione abitudini consolidate.

Possiamo vedere questo momento come un punto di snodo:

  • ciò che abbiamo vissuto ci ha cambiati, anche in modo sottile;
  • tornare alla quotidianità significa confrontarci con questi cambiamenti;
  • se non li riconosciamo, rischiamo di sentirci in conflitto, svuotati o insoddisfatti.

Il rientro diventa allora un invito a rallentare e ascoltarsi: cosa porto con me di nuovo? Cosa non mi rappresenta più? E come posso integrare queste scoperte nella vita di ogni giorno?


2. Coppia e vacanza: quando il ritorno mette alla prova

Le vacanze, per molte coppie, sono un momento di ridefinizione della relazione.
Lontani dai ritmi abituali, emergono dinamiche nuove:

  • momenti di complicità ritrovata;
  • desideri che si svelano;
  • ma anche tensioni e bisogni divergenti.

Con il rientro, queste esperienze entrano nel quotidiano:

  • Se abbiamo vissuto sintonia e leggerezza, può nascere il timore di perderle.
  • Se sono emerse difficoltà, il ritorno alla routine può renderle più evidenti, perché i vecchi schemi relazionali tendono a riattivarsi.

Dal punto di vista del rapporto di coppia, questo è un passaggio fertile: la coppia ha l’opportunità di negoziare nuovi equilibri.

È un tempo per chiedersi:

  • Quali momenti di connessione desideriamo custodire?
  • Cosa ci ha messo in difficoltà e come possiamo parlarne, senza accusarci?
  • Quale spazio dare alle differenze che la vacanza ha messo in luce?

Non si tratta di tornare “come prima”, ma di creare un nuovo modo di stare insieme, più consapevole e autentico.


3. Il ritorno come confronto con i propri desideri

Il disagio del rientro spesso non nasce solo dalla fine delle vacanze, ma dal riemergere dei desideri.
In vacanza ci avviciniamo a ciò che ci fa stare bene:

  • più lentezza,
  • più spazio per noi,
  • relazioni vissute con minor fretta,
  • tempo per il corpo, per il silenzio, per la curiosità.

Quando torniamo, la vita quotidiana può sembrare distante da ciò che abbiamo riscoperto. Qui nasce la tensione interiore: torno come prima o provo a cambiare qualcosa?

Non è raro che, dopo l’estate, nascano riflessioni importanti: cambiare lavoro, ridefinire priorità, cercare più spazio per sé o per la coppia. Accogliere queste domande senza giudicarle è il primo passo per costruire un equilibrio più autentico.


4. Un invito all’ascolto reciproco

Se il rientro è un momento di cambiamento, diventa essenziale creare spazi di ascolto:

  • con sé stessi, per riconoscere bisogni ed emozioni,
  • con l’altro, per condividere ciò che si è scoperto,
  • nella coppia, per mantenere viva la curiosità reciproca.

Questo ascolto è centrale: significa riconoscere che io e l’altro siamo cambiati — anche solo un po’ — e incontrarci di nuovo, anziché tornare automaticamente agli schemi di prima.


Conclusione

Il rientro dalle vacanze non è solo un ritorno alla routine: è un tempo di passaggio che può diventare occasione di crescita.
Possiamo scegliere se tornare a fare “come sempre” o fermarci, ascoltarci e integrare ciò che di nuovo abbiamo scoperto.

“Non si tratta di tornare indietro, ma di andare avanti con ciò che abbiamo incontrato di noi stessi e dell’altro.

Accogliere questa trasformazione significa prendersi cura di sé, della coppia e delle relazioni, permettendo che la pausa estiva lasci un segno che continui a nutrirci.

Accorgersi di sé: ascoltarsi per stare meglio

Terzo articolo della serie dedicata al benessere personale.


Ascoltarsi: un gesto silenzioso e rivoluzionario

Prendersi cura del proprio benessere è un percorso che si costruisce giorno dopo giorno.

Dopo aver riflettuto su cosa significa stare bene e su come la presenza possa aiutarci a ritrovare un contatto più profondo con noi stessi, oggi ci soffermiamo su un aspetto tanto semplice quanto potente: ascoltarsi.

Quante volte andiamo avanti con il pilota automatico? Tra impegni, relazioni, urgenze quotidiane, rischiamo di perdere il contatto con ciò che ci abita: le emozioni, i bisogni, le sensazioni del corpo.

Ascoltarsi non significa concentrarsi solo su di sé in modo egocentrico, ma dare spazio a una parte spesso trascurata: quella che prova, sente, desidera, teme.

È una forma di cura gentile.
È dire a se stessi: “Ti vedo. Sono qui.”


Perché è così difficile ascoltarsi?

Per molte persone, l’ascolto di sé può fare paura.
Emergerebbe forse una stanchezza che non si vuole ammettere, una tristezza rimasta in sottofondo, un bisogno di riposo o di distanza.

Eppure è proprio riconoscendo ciò che c’è – anche se scomodo – che possiamo davvero prenderci cura di noi, in modo autentico.


Ascoltarsi è accogliersi

Un ascolto vero è sempre non giudicante.
Non si tratta di correggere, sistemare, migliorare.
Si tratta di accogliere, di dare voce, di non scappare.

In studio, spesso vedo quanto un gesto di ascolto possa trasformare una sensazione di confusione in uno spazio più calmo, più vivibile.

L’ascolto è una pratica, e come ogni pratica può essere coltivata un po’ alla volta, con rispetto e delicatezza.


📝 Spunto esperienziale: Diario delle piccole voci

Ti propongo un esercizio semplice, da fare la sera o in un momento di quiete.

Ogni giorno, per una settimana, scrivi queste tre cose:

  1. Un’emozione che ho provato oggi
    (anche piccola, anche confusa: va bene così com’è)
  2. Un bisogno che ho sentito
    (es. ho bisogno di riposo, di chiarezza, di contatto, di solitudine…)
  3. Una piccola cosa che posso fare domani per prendermi cura di me

Non serve scrivere molto, basta una frase o anche solo una parola.

Questa pratica non ha lo scopo di analizzare, ha lo scopo di riconoscere.


Concludendo

Accorgersi di sé è il primo passo per potersi accompagnare con gentilezza.
Nel rumore della vita quotidiana, concedersi un ascolto vero può diventare un atto rivoluzionario di benessere.


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Quando ci sentiamo sopraffatti, a volte è nei piccoli gesti che possiamo tornare a noi.

Cosa significa “stare bene”?

È una domanda che attraversa spesso le sedute. Non si tratta solo di sentirsi felici o rilassati, ma piuttosto di sentirsi presenti a sé stessi, in contatto con ciò che si prova, anche quando non è facile.

In psicoterapia, questo momento di contatto può avvenire in modi diversi: a volte attraverso le parole, a volte attraverso un silenzio, un’immagine, un gesto che il paziente racconta quasi distrattamente… e che invece parla di una cura che inizia.

Piccoli gesti che aiutano a ritrovarsi

Alcune persone, nei momenti difficili, si sentono come disconnesse da sé, non dormono bene, fanno fatica a concentrarsi, sentono il corpo come distante o in tensione continua.

In questi casi, non è necessario fare “di più”, ma imparare a fare spazio.

Significa fermarsi, respirare, per non correre subito verso una soluzione. Possiamo iniziare da piccoli gesti quotidiani, vissuti con maggiore attenzione:

  • Sorseggiare una bevanda calda e sentire cosa succede dentro
  • Camminare lentamente e ascoltare il contatto dei piedi a terra
  • Fermarsi un momento a chiedersi: “Che cosa sto provando, in questo momento?”

Questi gesti non sono una tecnica, ma un modo per tornare a sentirsi vivi.

L’ascolto di sé non sempre è immediato

A volte è più facile restare nel fare, nel correre, nel sistemare le cose. Ma quando si rallenta – anche solo un po’ – emergono emozioni che aspettavano da tempo di essere viste: la stanchezza, la tristezza, il bisogno di essere accolti.

Il lavoro psicoterapeutico offre proprio questo: uno spazio in cui poter sentire o tornare a sentire.

Non si tratta di cambiare personalità, ma di rientrare in contatto con parti di sé che magari si erano messe da parte.

Non servono grandi strumenti, ma uno sguardo più gentile

La ricerca del benessere non è un obiettivo da raggiungere con sforzo, ma un processo che passa anche dalla cura delle piccole cose: il tono con cui ci parliamo, il tempo che ci concediamo, la possibilità di dire “Sto facendo del mio meglio”.

Non è mindfulness in senso tecnico. È presenza, cura, attenzione. E può essere il primo passo per uscire dal senso di disconnessione e tornare a sentire che ci siamo, anche dentro alla fatica.

Qualche spunto per iniziare:

Se senti il bisogno di ritrovarti un po’ di più, ma non sai come fare, ecco alcuni gesti semplici che puoi sperimentare nei prossimi giorni. Non c’è giusto o sbagliato, solo la possibilità di iniziare, anche da un frammento.

Un sorso d’acqua con attenzione

Bevi lentamente un bicchiere d’acqua. Senti il contatto con le labbra, il passaggio nel corpo. Osserva cosa succede dentro mentre lo fai. È un gesto semplice, ma può riportarti al presente.

Un minuto di respiro consapevole

Fermati un momento. Chiudi gli occhi, se vuoi. Inspira ed espira lentamente. Non devi cambiare il respiro, solo sentirlo. Puoi contare fino a 10, poi ricominciare. È un modo per dire a te stesso: “Sto qui con me.”

Ascolta qualcuno davvero

La prossima volta che una persona ti parla, prova ad ascoltarla senza interrompere, senza pensare a cosa rispondere. Solo per qualche minuto, stai lì, con attenzione piena. Anche questo è un modo per coltivare presenza.

Nota una cosa bella nella tua giornata

Alla sera, chiediti: “C’è stato un momento in cui mi sono sentito bene, o almeno meno teso?”. Potrebbe essere una luce, una parola, una pausa. Annotarlo o semplicemente riconoscerlo può cambiare il tuo modo di vedere la giornata.

Non servono grandi cambiamenti. Serve solo iniziare da sé.

La psicoterapia è, in fondo, uno spazio in cui imparare a portare attenzione e cura alla propria vita interiore. Un passo alla volta, un gesto alla volta. E, soprattutto, senza fretta.

Se desideri iniziare un percorso di questo tipo, posso accompagnarti.
Contattami qui

 “Cose che posso dirmi quando sto male”

Una guida gentile per non sentirmi soli nei momenti difficili

Ci sono giorni in cui tutto pesa.

Sono giorni in cui anche le cose semplici sembrano faticose, il respiro si fa più corto e la mente si riempie di pensieri che non aiutano.

E in quei momenti, la voce interiore che ci parla può fare la differenza: può ferirci di più, oppure accompagnarci con delicatezza.

A volte ci diciamo cose dure:

“Dovresti farcela”, “Non è niente”, “Smettila di essere così”, “Sei sempre il solito”.

Ma cosa succede se invece impariamo a dirci parole nuove?

Pensiamo a parole che non negano la difficoltà, ma che ci aiutano a rimanere in contatto con noi stessi, anche nel dolore.

Parole che aiutano, piccole frasi da tenere vicine.

Non sono formule magiche, sono frasi di cura, da sussurrarsi o scriversi, da ripetere quando serve.

Ti invito a leggerle lentamente e sentire se qualcuna ti “risuona” più delle altre.

“In questo momento sto facendo del mio meglio”

– “È normale sentirmi così, dopo quello che ho vissuto”

– “Non devo avere tutte le risposte adesso”

– “Sto attraversando un momento difficile, ma non sono solo/a”

– “Anche questo passerà, un passo alla volta”

– “Il mio valore non dipende da come mi sento oggi”

– “Merito lo stesso rispetto e cura, anche se sono fragile”

– “Posso fermarmi. Posso respirare. Posso ricominciare.”

Perché serve parlarsi con gentilezza?

Il nostro cervello tende a interiorizzare i messaggi che riceve più spesso.

Se la voce dentro di noi è costantemente critica o svalutante, finiamo per crederle.

Ma quando iniziamo a introdurre una voce più compassionevole, più umana, possiamo ricostruire un senso di sicurezza interna, anche nei momenti più difficili.

Non è debolezza.

È una forma di forza silenziosa.

Spunti per il dialogo interiore

C’è una frase tra quelle sopra che vorresti tenere nel portafoglio, come un piccolo talismano?

Se potessi parlare a te stesso/a come parleresti a un caro amico in difficoltà, cosa diresti oggi?

Qual è una parola che vorresti sentirti dire, ma che non hai mai ricevuto abbastanza?

Quando uno solo vuole fare terapia di coppia: che fare?

Uno dei blocchi più frequenti: uno dei due sente il bisogno di un aiuto, l’altro si rifiuta o minimizza. Cosa fare quando la richiesta d’aiuto resta senza risposta?


Una richiesta che spesso nasce nella solitudine

Molte persone arrivano in terapia dicendo:
“Vorrei iniziare un percorso di coppia, ma il mio partner non vuole.”

Chi chiede aiuto si trova spesso nel paradosso di essere l’unico a vedere il problema, o quantomeno a volerlo affrontare. L’altro minimizza, rimanda, cambia discorso, oppure dice chiaramente:
“Non credo nella terapia”, “Non serve, siamo solo stanchi”, “Il problema ce l’hai tu.”

Dietro questa risposta possono esserci molte cose: difese, paure, vergogna, ma anche una diversa rappresentazione del legame e del conflitto.
Nella prospettiva relazionale, ogni comportamento ha un significato che va compreso nel contesto della storia di quella coppia.


Chi propone la terapia non è “quello che ha il problema”

Spesso, chi prende l’iniziativa si sente in colpa o teme di forzare l’altro.
In realtà, la richiesta di aiuto è un gesto relazionale, un modo per dire:
“Mi importa di noi”, “Voglio provare a capire, insieme.”

Chiedere aiuto non significa accusare, né attribuire colpe.
Significa voler aprire uno spazio nuovo, dove ci si possa vedere da un altro punto di vista.


Il rifiuto ha sempre un significato relazionale

Quando l’altro si rifiuta di partecipare, non sempre è per indifferenza.
A volte è una forma di difesa:

  • Per paura di essere messo sotto accusa
  • Perché non si sente capace di esprimere ciò che prova
  • Perché ha vissuto la terapia, in passato, come qualcosa di giudicante
  • O perché non riesce a riconoscere la profondità del malessere

In chiave psicoanalitica, potremmo dire che il rifiuto è già un messaggio, un segnale che può essere ascoltato, non forzato.


Si può iniziare da soli

Se la coppia non è pronta, può essere utile iniziare un percorso individuale.
Anche in uno solo, il legame è presente: nella mente, nel corpo, nella narrazione.
Lavorare su di sé può già produrre un cambiamento nella relazione.

A volte, questo porta l’altro ad avvicinarsi spontaneamente; altre volte permette di chiarire i propri bisogni, limiti e desideri.

Non c’è nulla di sbagliato nel prendersi cura della relazione partendo da sé.


Spunti per il dialogo di coppia

  • Cosa ti spaventa, o ti frena, all’idea di fare una terapia insieme?
  • Come possiamo parlare del nostro disagio senza colpevolizzarci?
  • Riesci a vedere che anche io sto soffrendo, pur se in modo diverso da te?
  • Posso iniziare io da solo, ma spero che tu senta che è una strada aperta anche per te.

Se desideri parlarne

Se stai vivendo questo tipo di difficoltà nella tua relazione, e senti di non essere ascoltato o compreso, parlarne in uno spazio sicuro può essere un primo passo importante.
La terapia non è un ultimatum, ma un invito: a guardarsi, a riconoscersi, a non perdersi.

Contattami se desideri capire meglio se un percorso individuale o di coppia può fare al caso tuo, puoi scrivere qui

Quando la coppia si blocca: segnali da non sottovalutare

Ci sono momenti in cui il disagio di coppia non si manifesta attraverso litigi o discussioni esplicite, ma in una forma ancora più silenziosa: la distanza. Si assiste ad una convivenza fatta di ruoli, impegni e responsabilità, ma senza presenza emotiva. In ottica relazionale, questi segnali ci dicono molto e non vanno sottovalutati.

“Non ci cerchiamo più, ma non sappiamo perché”

Molte coppie arrivano in terapia con questa sensazione: non c’è un conflitto aperto, ma nemmeno confronto. La relazione sembra funzionare “da fuori”, ma è come se qualcosa si fosse spento dentro.

Dobbiamo considerare il significato che assume il silenzio nella dinamica relazionale. Cosa comunica quel vuoto? Cosa si sta evitando, difendendo, trattenendo?

A volte il partner non viene più percepito come un soggetto emotivo, ma solo nel suo ruolo: il padre, la madre, il coinquilino. Si smette di vedersi davvero.

Segnali sottili ma importanti

Ci sono piccoli segnali che parlano di una crisi profonda, anche se spesso vengono minimizzati:

  • Le conversazioni diventano solo pratiche
  • Si evita l’intimità, fisica e affettiva
  • Si sente di non essere ascoltati
  • Si prova una solitudine che non si riesce a nominare
  • Si ha la sensazione che qualcosa si sia rotto, ma non si sa cosa

In queste situazioni non c’è una rottura improvvisa, ma un lento allontanamento affettivo, spesso reciproco e inconsapevole.

Perché ci si blocca?

Il blocco nella coppia non è mai solo “colpa del presente”, non dipende dall’ultima discussione o evento successo. Spesso il blocco si attiva a partire da dinamiche più profonde: modalità di attaccamento, vissuti antichi, ferite relazionali non elaborate.

Il partner può diventare inconsapevolmente lo specchio di esperienze precoci: la paura di non essere accolti, la sensazione di non contare, il timore del rifiuto. Così si tace per proteggersi, o per non riattivare vecchie ferite.

La distanza diventa una difesa, che però protegge dal dolore, anche se a farne le spese è la qualità del legame e del benessere personale.

La terapia di coppia come spazio terzo

La terapia non è uno spazio per decidere se “restare insieme o lasciarsi”, è uno spazio per sentire, capire, ritrovare la parola.

In un percorso terapeutico la coppia può:

  • Osservare le dinamiche che si ripetono
  • Comprendere il significato emotivo del blocco
  • Tornare a sentire l’altro, e sé stessi, come soggetti vivi
  • Ridefinire il legame, con rispetto e consapevolezza

Nel lavoro terapeutico si crea un campo relazionale terzo, in cui è possibile contenere il dolore e dare nuovo senso alla relazione.

Spunti per il dialogo di coppia

Queste domande possono essere un primo passo per riaprire un canale:

  • Quando ho smesso di raccontarti davvero come sto? Quando hai smesso tu?
  • Cosa mi protegge dal parlarti? E cosa temo di scoprire, se lo facessi?
  • Abbiamo smesso di cercarci… o non sappiamo più come fare?
  • Che tipo di coppia siamo diventati? È ciò che vogliamo davvero o ciò che ci è capitato?

Se senti che anche nella tua relazione qualcosa si è fermato e non sai da dove ripartire, la terapia di coppia può offrirti uno spazio sicuro per farlo.

Chiedere una terapia di coppia… anche quando uno ha già deciso di separarsi

di Dott.ssa Maura Maria Schiavetta – Psicoterapeuta individuale e di coppia

Quando sembra troppo tardi

“Mi ha chiesto di venire in terapia, ma io dentro di me so che non ce la faccio più.”

“Mi sento sola da troppo tempo. Gli ho parlato per anni, ma non mi ha mai davvero ascoltata.”

Sono frasi che ascolto spesso quando una coppia arriva in terapia in un momento molto avanzato della crisi. Quando uno dei due ha già cominciato a separarsi dentro di sé.

In questi casi, ha ancora senso iniziare un percorso?

La risposta è sì. Ma è importante sapere di quale terapia stiamo parlando: la terapia come spazio relazionale, non come “cura della coppia”

Il terapeuta non ha il compito di “riparare” la coppia a tutti i costi, né di far cambiare idea a chi ha già deciso.

Il lavoro si fonda su un altro principio:

creare uno spazio in cui la verità della relazione possa emergere, essere nominata, compresa.

Anche una separazione può essere un esito maturo della terapia, quando nasce da un processo di consapevolezza reciproca, e non da uno scontro distruttivo.

Dare senso a ciò che è accaduto (e a ciò che non è riuscito)

Quando uno dei due partner è già orientato verso la separazione, la terapia può diventare:

– uno spazio in cui chi sta lasciando può dire, forse per la prima volta, tutto il peso del silenzio, del non essere visto, del sentirsi solo anche in due;

– uno spazio in cui chi viene lasciato può cominciare a comprendere, a uscire dal senso di rifiuto, a rileggere la storia in modo meno difensivo.

In questo modo, la terapia non salva il legame, ma gli restituisce una dignità.

Il valore del contenitore terapeutico

Nel modello relazionale, la presenza del terapeuta crea una terza posizione, protetta e regolata, che permette di:

– dare forma alla rabbia senza aggredire

– dare spazio al dolore senza fuggire

– nominare la separazione come un evento significativo, e non solo come una frattura.

Il terapeuta non impone una direzione, ma accompagna ciò che sta già accadendo, facilitando l’elaborazione e la trasformazione.

Rabbia e dolore: movimenti profondi della psiche

Quando una persona arriva dicendo “non ce la faccio più”, spesso sotto la rabbia c’è un dolore antico: quello di non essere stato riconosciuto, di aver lottato da solo, di aver perso fiducia nella possibilità di essere ascoltato.

Non bisogna contrastare la rabbia, ma ascoltarla come segnale psichico.

È proprio in quel momento che si può cominciare a fare un vero lavoro di elaborazione.

Separarsi nella relazione, non dal conflitto

Quando la separazione è inevitabile, il compito terapeutico diventa accompagnare la rottura, non subirla o affrettarla.

Questo significa:

– costruire un contesto in cui ci si possa dire addio guardandosi

– evitare che l’uscita dalla coppia sia una fuga, uno strappo violento o una rimozione

– lasciare a ciascuno il tempo psichico per dare un significato alla fine.

Anche la fine può essere un atto relazionale

In molti casi, la terapia non serve a “salvare” la coppia, serve a chiudere in modo più umano, evitando ferite inutili, riconoscendo ciò che è stato e ciò che non è stato possibile.

non tutte le coppie devono restare insieme, ma tutte meritano di essere ascoltate nella loro verità.

Conclusione: la terapia non arriva tardi, se dà voce a ciò che c’è.

Chiedere una terapia anche quando uno dei due è già pronto ad andare via non è un errore.

È un gesto di cura, di responsabilità.

È il tentativo di chiudere una storia senza lasciarla incompiuta dentro di sé.

Se stai vivendo un momento delicato nella tua relazione e senti che hai bisogno di uno spazio in cui esplorare ciò che accade, contattami qui

Vacanze in coppia con bambini: come ritrovare uno spazio di intimità anche in famiglia

Le vacanze, per chi ha figli, non sono più solo vacanze. Sono un tempo condiviso in cui la coppia e la famiglia si intrecciano in un equilibrio spesso delicato, in cui ci si divide tra mille richieste e bisogni dei più piccoli. È facile idealizzare la partenza come un momento di riposo e unione, ma la realtà è che, per molti genitori, la vacanza può diventare un periodo ancora più impegnativo del resto dell’anno.

Dove finisce il ruolo genitoriale e dove può riemergere la dimensione della coppia? È davvero possibile ritrovare intimità e connessione quando tutto ruota intorno ai bisogni dei bambini?

Spesso, con l’arrivo dei figli, la coppia tende a “scomparire” per l’accumulo di compiti da svolgere e l’attenzione da dedicare a loro.

Nella pratica clinica, capita spesso di incontrare genitori che sentono di non essere più una coppia “come prima”. È un passaggio fisiologico: l’arrivo dei figli porta un cambiamento di identità profondo, e spesso la priorità assoluta diventa la loro cura. Questo è naturale, ma nel tempo, se la coppia non trova piccoli spazi per rigenerarsi, il rischio è quello di perdersi di vista e aumentare la distanza emotiva, che si può anche trasformare in distanza fisica.

Durante le vacanze, questa dinamica si amplifica: le routine vengono meno, i tempi si dilatano, e la gestione dei figli – senza il supporto della scuola o dei nonni – può diventare ancora più assorbente.

Il bisogno di “tempo a due” non è un lusso

Spesso le coppie si sentono in colpa solo a pensare di volersi ritagliare un momento per sé: “Non siamo venuti in vacanza per stare tutti insieme?”. Ma il tempo di qualità in famiglia non esclude il tempo di qualità nella relazione di coppia. Al contrario, una coppia che riesce a ritagliarsi momenti di dialogo, intimità e vicinanza trasmette ai figli un senso di stabilità e fiducia.

Anche in vacanza, prendersi cura della coppia significa nutrire il legame che tiene insieme la famiglia.

Non servono grandi gesti o fughe romantiche per ri-conettersi con il proprio partner. A volte bastano:

un caffè insieme al mattino, mentre i bambini ancora dormono; una passeggiata con il passeggino mentre si chiacchiera della giornata; uno sguardo condiviso, un momento di leggerezza, una battuta che fa ridere solo voi.

L’intimità non è solo sessualità o tempo “da soli”. È sentirsi ancora complici, ri-conoscersi nei piccoli gesti.

I conflitti non vanno in vacanza

Un altro aspetto da non sottovalutare è che, durante le vacanze, le tensioni latenti possono emergere più facilmente. Senza la “copertura” della routine quotidiana, la coppia si ritrova faccia a faccia, e può essere difficile mantenere il solito equilibrio. Le differenze nei ritmi, nella gestione dei figli, nelle aspettative sul tempo libero, possono accendere conflitti o riattivare vecchie ferite.

Viverli come occasione di confronto – e non come minaccia – è una sfida, ma anche una possibilità preziosa di crescita. La vacanza può diventare uno spazio in cui fermarsi, ascoltarsi e rinegoziare le reciproche posizioni.

Puoi prendere queste domande come spunto per iniziare un dialogo di coppia:

  • Qual è il momento della giornata che ci fa sentire più vicini, anche con i bambini accanto?
  • C’è qualcosa che possiamo fare per proteggerlo insieme?
  • Cosa ci manca, oggi, per sentirci ancora “noi”, al di là del ruolo di genitori?
  • Come possiamo sostenerci meglio a vicenda nei momenti faticosi della vacanza?

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