Le feste come specchio dei legami familiari

Natale è famiglia: quanto i legami ci condizionano e quante aspettative portiamo alle feste?

Il Natale è spesso raccontato come il tempo della famiglia, della condivisione e della serenità. Le immagini che ci accompagnano – tavole imbandite, sorrisi, abbracci – costruiscono un’idea precisa di come dovrebbe essere questo periodo.

Eppure, per molte persone, il Natale è anche un tempo emotivamente complesso, carico di aspettative, tensioni e talvolta di sofferenza silenziosa.

In psicoterapia, il periodo delle feste è spesso un momento in cui emergono con più forza nodi personali e relazionali che durante l’anno rimangono sullo sfondo.

La famiglia come luogo affettivo… e come luogo di condizionamento

La famiglia è il primo contesto relazionale in cui cresciamo. È lì che impariamo chi siamo, che valore abbiamo, cosa ci si aspetta da noi e quali emozioni sono ammesse.

I legami familiari sono profondi e, proprio per questo, potentemente condizionanti.

Anche da adulti, quando torniamo “a casa per Natale”, non torniamo solo fisicamente: torniamo in ruoli antichi, in copioni relazionali già scritti, in dinamiche che spesso non scegliamo consapevolmente.

C’è chi torna a sentirsi “il figlio che non fa mai abbastanza”, chi “quella che deve tenere tutti insieme”, chi vive il richiamo implicito a essere come gli altri si aspettano, pena il senso di colpa o il conflitto.

Le aspettative natalizie: tra desiderio e obbligo

Il Natale è carico di aspettative: aspettative di armonia, di felicità, di riconciliazione, di presenza e disponibilità emotiva.

Spesso queste aspettative non sono esplicitate, ma vengono date per scontate: “È Natale, dovremmo stare bene”, “È Natale, bisogna esserci”, “A Natale non si litiga”.

Quando però la realtà emotiva non coincide con l’ideale, può emergere un forte senso di inadeguatezza:

“Se sto male proprio ora, c’è qualcosa che non va in me”.

In realtà, il disagio che molte persone provano durante le feste non è un fallimento personale, ma il segnale di un conflitto tra ciò che sentono e ciò che credono di dover sentire.

Quando i legami diventano più pesanti nelle feste

Le festività amplificano tutto: le relazioni già fragili diventano più tese, i conflitti irrisolti tornano a galla, le differenze generazionali si accentuano e le ferite del passato trovano più spazio.

In particolare, chi ha vissuto famiglie poco sintonizzate emotivamente, oppure relazioni segnate da mancanze, critiche o rigidità, può sentire il Natale come un momento di esposizione forzata: troppo vicini, troppo a lungo, senza vie di fuga.

Il Natale come occasione di consapevolezza

Dal punto di vista psicoterapeutico, il periodo natalizio può diventare un’occasione preziosa di osservazione interna.

Le emozioni che emergono – fastidio, tristezza, rabbia, nostalgia, ansia – parlano di bisogni profondi, spesso antichi.

Potremmo chiederci: Cosa mi pesa davvero del Natale? Da cosa mi sento obbligato/a? Quale ruolo sento di dover interpretare? Cosa desidererei, se potessi scegliere liberamente?

Questo può aiutare a distinguere tra il legame affettivo e il legame condizionante.

Psicoterapia: dare spazio a ciò che non trova posto a tavola

La psicoterapia offre uno spazio in cui le emozioni “scomode” delle feste possono essere finalmente accolte, senza il bisogno di minimizzarle o di giustificarle.

È un luogo in cui si può iniziare a rivedere il modo in cui i legami familiari continuano a influenzare scelte, vissuti e confini personali.

Non si tratta di “allontanarsi dalla famiglia”, ma di differenziarsi emotivamente: imparare a restare in relazione senza perdere sé stessi.

Un Natale possibile, non perfetto

Forse il Natale non deve essere per forza felice, ma può essere solo abbastanza autentico, con meno obblighi e più ascolto, meno aspettative ideali e più rispetto per ciò che davvero sentiamo.

Accettare che le feste possano muovere emozioni contrastanti è già un passo verso una maggiore libertà interiore.

E, a volte, è proprio riconoscendo i nodi che il Natale porta alla luce che diventa possibile iniziare un cambiamento più profondo.

Rientro dalle vacanze: un nuovo incontro con sé stessi e con l’altro

Le vacanze sono spesso vissute come una parentesi sospesa: un tempo “altro” che rompe i ritmi quotidiani e ci restituisce spazi di libertà, leggerezza e contatto con ciò che ci fa stare bene.
Quando però finiscono, non torniamo semplicemente dove eravamo: torniamo cambiati.

Ogni viaggio — anche breve — ci mette in contatto con parti di noi che, nella routine, rimangono più silenziose: desideri, nuovi ritmi, un diverso modo di stare con l’altro o con noi stessi. Al rientro, queste parti non scompaiono: ci accompagnano e ci chiedono spazio.

Proprio in questo punto di passaggio, quando il sé vacanziero incontra il sé quotidiano, possono nascere emozioni contrastanti: nostalgia, fatica, entusiasmo, voglia di cambiamento. È un momento prezioso per fermarsi e ascoltarsi.


1. Il rientro come spazio di trasformazione

Spesso pensiamo che rientrare significhi “riprendere da dove avevamo lasciato”, ma psicologicamente non è così.
La pausa estiva non è solo riposo: è una esperienza trasformativa che ridistribuisce energie psichiche, ci permette di esplorare nuove modalità relazionali e di rimettere in discussione abitudini consolidate.

Possiamo vedere questo momento come un punto di snodo:

  • ciò che abbiamo vissuto ci ha cambiati, anche in modo sottile;
  • tornare alla quotidianità significa confrontarci con questi cambiamenti;
  • se non li riconosciamo, rischiamo di sentirci in conflitto, svuotati o insoddisfatti.

Il rientro diventa allora un invito a rallentare e ascoltarsi: cosa porto con me di nuovo? Cosa non mi rappresenta più? E come posso integrare queste scoperte nella vita di ogni giorno?


2. Coppia e vacanza: quando il ritorno mette alla prova

Le vacanze, per molte coppie, sono un momento di ridefinizione della relazione.
Lontani dai ritmi abituali, emergono dinamiche nuove:

  • momenti di complicità ritrovata;
  • desideri che si svelano;
  • ma anche tensioni e bisogni divergenti.

Con il rientro, queste esperienze entrano nel quotidiano:

  • Se abbiamo vissuto sintonia e leggerezza, può nascere il timore di perderle.
  • Se sono emerse difficoltà, il ritorno alla routine può renderle più evidenti, perché i vecchi schemi relazionali tendono a riattivarsi.

Dal punto di vista del rapporto di coppia, questo è un passaggio fertile: la coppia ha l’opportunità di negoziare nuovi equilibri.

È un tempo per chiedersi:

  • Quali momenti di connessione desideriamo custodire?
  • Cosa ci ha messo in difficoltà e come possiamo parlarne, senza accusarci?
  • Quale spazio dare alle differenze che la vacanza ha messo in luce?

Non si tratta di tornare “come prima”, ma di creare un nuovo modo di stare insieme, più consapevole e autentico.


3. Il ritorno come confronto con i propri desideri

Il disagio del rientro spesso non nasce solo dalla fine delle vacanze, ma dal riemergere dei desideri.
In vacanza ci avviciniamo a ciò che ci fa stare bene:

  • più lentezza,
  • più spazio per noi,
  • relazioni vissute con minor fretta,
  • tempo per il corpo, per il silenzio, per la curiosità.

Quando torniamo, la vita quotidiana può sembrare distante da ciò che abbiamo riscoperto. Qui nasce la tensione interiore: torno come prima o provo a cambiare qualcosa?

Non è raro che, dopo l’estate, nascano riflessioni importanti: cambiare lavoro, ridefinire priorità, cercare più spazio per sé o per la coppia. Accogliere queste domande senza giudicarle è il primo passo per costruire un equilibrio più autentico.


4. Un invito all’ascolto reciproco

Se il rientro è un momento di cambiamento, diventa essenziale creare spazi di ascolto:

  • con sé stessi, per riconoscere bisogni ed emozioni,
  • con l’altro, per condividere ciò che si è scoperto,
  • nella coppia, per mantenere viva la curiosità reciproca.

Questo ascolto è centrale: significa riconoscere che io e l’altro siamo cambiati — anche solo un po’ — e incontrarci di nuovo, anziché tornare automaticamente agli schemi di prima.


Conclusione

Il rientro dalle vacanze non è solo un ritorno alla routine: è un tempo di passaggio che può diventare occasione di crescita.
Possiamo scegliere se tornare a fare “come sempre” o fermarci, ascoltarci e integrare ciò che di nuovo abbiamo scoperto.

“Non si tratta di tornare indietro, ma di andare avanti con ciò che abbiamo incontrato di noi stessi e dell’altro.

Accogliere questa trasformazione significa prendersi cura di sé, della coppia e delle relazioni, permettendo che la pausa estiva lasci un segno che continui a nutrirci.

Accorgersi di sé: ascoltarsi per stare meglio

Terzo articolo della serie dedicata al benessere personale.


Ascoltarsi: un gesto silenzioso e rivoluzionario

Prendersi cura del proprio benessere è un percorso che si costruisce giorno dopo giorno.

Dopo aver riflettuto su cosa significa stare bene e su come la presenza possa aiutarci a ritrovare un contatto più profondo con noi stessi, oggi ci soffermiamo su un aspetto tanto semplice quanto potente: ascoltarsi.

Quante volte andiamo avanti con il pilota automatico? Tra impegni, relazioni, urgenze quotidiane, rischiamo di perdere il contatto con ciò che ci abita: le emozioni, i bisogni, le sensazioni del corpo.

Ascoltarsi non significa concentrarsi solo su di sé in modo egocentrico, ma dare spazio a una parte spesso trascurata: quella che prova, sente, desidera, teme.

È una forma di cura gentile.
È dire a se stessi: “Ti vedo. Sono qui.”


Perché è così difficile ascoltarsi?

Per molte persone, l’ascolto di sé può fare paura.
Emergerebbe forse una stanchezza che non si vuole ammettere, una tristezza rimasta in sottofondo, un bisogno di riposo o di distanza.

Eppure è proprio riconoscendo ciò che c’è – anche se scomodo – che possiamo davvero prenderci cura di noi, in modo autentico.


Ascoltarsi è accogliersi

Un ascolto vero è sempre non giudicante.
Non si tratta di correggere, sistemare, migliorare.
Si tratta di accogliere, di dare voce, di non scappare.

In studio, spesso vedo quanto un gesto di ascolto possa trasformare una sensazione di confusione in uno spazio più calmo, più vivibile.

L’ascolto è una pratica, e come ogni pratica può essere coltivata un po’ alla volta, con rispetto e delicatezza.


📝 Spunto esperienziale: Diario delle piccole voci

Ti propongo un esercizio semplice, da fare la sera o in un momento di quiete.

Ogni giorno, per una settimana, scrivi queste tre cose:

  1. Un’emozione che ho provato oggi
    (anche piccola, anche confusa: va bene così com’è)
  2. Un bisogno che ho sentito
    (es. ho bisogno di riposo, di chiarezza, di contatto, di solitudine…)
  3. Una piccola cosa che posso fare domani per prendermi cura di me

Non serve scrivere molto, basta una frase o anche solo una parola.

Questa pratica non ha lo scopo di analizzare, ha lo scopo di riconoscere.


Concludendo

Accorgersi di sé è il primo passo per potersi accompagnare con gentilezza.
Nel rumore della vita quotidiana, concedersi un ascolto vero può diventare un atto rivoluzionario di benessere.


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Quando ci sentiamo sopraffatti, a volte è nei piccoli gesti che possiamo tornare a noi.

Cosa significa “stare bene”?

È una domanda che attraversa spesso le sedute. Non si tratta solo di sentirsi felici o rilassati, ma piuttosto di sentirsi presenti a sé stessi, in contatto con ciò che si prova, anche quando non è facile.

In psicoterapia, questo momento di contatto può avvenire in modi diversi: a volte attraverso le parole, a volte attraverso un silenzio, un’immagine, un gesto che il paziente racconta quasi distrattamente… e che invece parla di una cura che inizia.

Piccoli gesti che aiutano a ritrovarsi

Alcune persone, nei momenti difficili, si sentono come disconnesse da sé, non dormono bene, fanno fatica a concentrarsi, sentono il corpo come distante o in tensione continua.

In questi casi, non è necessario fare “di più”, ma imparare a fare spazio.

Significa fermarsi, respirare, per non correre subito verso una soluzione. Possiamo iniziare da piccoli gesti quotidiani, vissuti con maggiore attenzione:

  • Sorseggiare una bevanda calda e sentire cosa succede dentro
  • Camminare lentamente e ascoltare il contatto dei piedi a terra
  • Fermarsi un momento a chiedersi: “Che cosa sto provando, in questo momento?”

Questi gesti non sono una tecnica, ma un modo per tornare a sentirsi vivi.

L’ascolto di sé non sempre è immediato

A volte è più facile restare nel fare, nel correre, nel sistemare le cose. Ma quando si rallenta – anche solo un po’ – emergono emozioni che aspettavano da tempo di essere viste: la stanchezza, la tristezza, il bisogno di essere accolti.

Il lavoro psicoterapeutico offre proprio questo: uno spazio in cui poter sentire o tornare a sentire.

Non si tratta di cambiare personalità, ma di rientrare in contatto con parti di sé che magari si erano messe da parte.

Non servono grandi strumenti, ma uno sguardo più gentile

La ricerca del benessere non è un obiettivo da raggiungere con sforzo, ma un processo che passa anche dalla cura delle piccole cose: il tono con cui ci parliamo, il tempo che ci concediamo, la possibilità di dire “Sto facendo del mio meglio”.

Non è mindfulness in senso tecnico. È presenza, cura, attenzione. E può essere il primo passo per uscire dal senso di disconnessione e tornare a sentire che ci siamo, anche dentro alla fatica.

Qualche spunto per iniziare:

Se senti il bisogno di ritrovarti un po’ di più, ma non sai come fare, ecco alcuni gesti semplici che puoi sperimentare nei prossimi giorni. Non c’è giusto o sbagliato, solo la possibilità di iniziare, anche da un frammento.

Un sorso d’acqua con attenzione

Bevi lentamente un bicchiere d’acqua. Senti il contatto con le labbra, il passaggio nel corpo. Osserva cosa succede dentro mentre lo fai. È un gesto semplice, ma può riportarti al presente.

Un minuto di respiro consapevole

Fermati un momento. Chiudi gli occhi, se vuoi. Inspira ed espira lentamente. Non devi cambiare il respiro, solo sentirlo. Puoi contare fino a 10, poi ricominciare. È un modo per dire a te stesso: “Sto qui con me.”

Ascolta qualcuno davvero

La prossima volta che una persona ti parla, prova ad ascoltarla senza interrompere, senza pensare a cosa rispondere. Solo per qualche minuto, stai lì, con attenzione piena. Anche questo è un modo per coltivare presenza.

Nota una cosa bella nella tua giornata

Alla sera, chiediti: “C’è stato un momento in cui mi sono sentito bene, o almeno meno teso?”. Potrebbe essere una luce, una parola, una pausa. Annotarlo o semplicemente riconoscerlo può cambiare il tuo modo di vedere la giornata.

Non servono grandi cambiamenti. Serve solo iniziare da sé.

La psicoterapia è, in fondo, uno spazio in cui imparare a portare attenzione e cura alla propria vita interiore. Un passo alla volta, un gesto alla volta. E, soprattutto, senza fretta.

Se desideri iniziare un percorso di questo tipo, posso accompagnarti.
Contattami qui

 “Cose che posso dirmi quando sto male”

Una guida gentile per non sentirmi soli nei momenti difficili

Ci sono giorni in cui tutto pesa.

Sono giorni in cui anche le cose semplici sembrano faticose, il respiro si fa più corto e la mente si riempie di pensieri che non aiutano.

E in quei momenti, la voce interiore che ci parla può fare la differenza: può ferirci di più, oppure accompagnarci con delicatezza.

A volte ci diciamo cose dure:

“Dovresti farcela”, “Non è niente”, “Smettila di essere così”, “Sei sempre il solito”.

Ma cosa succede se invece impariamo a dirci parole nuove?

Pensiamo a parole che non negano la difficoltà, ma che ci aiutano a rimanere in contatto con noi stessi, anche nel dolore.

Parole che aiutano, piccole frasi da tenere vicine.

Non sono formule magiche, sono frasi di cura, da sussurrarsi o scriversi, da ripetere quando serve.

Ti invito a leggerle lentamente e sentire se qualcuna ti “risuona” più delle altre.

“In questo momento sto facendo del mio meglio”

– “È normale sentirmi così, dopo quello che ho vissuto”

– “Non devo avere tutte le risposte adesso”

– “Sto attraversando un momento difficile, ma non sono solo/a”

– “Anche questo passerà, un passo alla volta”

– “Il mio valore non dipende da come mi sento oggi”

– “Merito lo stesso rispetto e cura, anche se sono fragile”

– “Posso fermarmi. Posso respirare. Posso ricominciare.”

Perché serve parlarsi con gentilezza?

Il nostro cervello tende a interiorizzare i messaggi che riceve più spesso.

Se la voce dentro di noi è costantemente critica o svalutante, finiamo per crederle.

Ma quando iniziamo a introdurre una voce più compassionevole, più umana, possiamo ricostruire un senso di sicurezza interna, anche nei momenti più difficili.

Non è debolezza.

È una forma di forza silenziosa.

Spunti per il dialogo interiore

C’è una frase tra quelle sopra che vorresti tenere nel portafoglio, come un piccolo talismano?

Se potessi parlare a te stesso/a come parleresti a un caro amico in difficoltà, cosa diresti oggi?

Qual è una parola che vorresti sentirti dire, ma che non hai mai ricevuto abbastanza?

“Voglio stare bene ma non ci riesco” – Perché l’ansia persiste anche quando il pericolo è passato (e cosa puoi fare ogni giorno per affrontarla)

Autrice: Dott.ssa Maura Maria Schiavetta

Quando il pericolo è finito ma il corpo non lo sa

Dopo un evento traumatico, è molto comune provare una sensazione di frustrazione: la mente sa che tutto è finito, ma il corpo e le emozioni continuano a vivere come se il pericolo fosse ancora lì. L’ansia resta, anche quando tutto sembra essere tornato alla normalità.

Questa sensazione si traduce in pensieri come:

🗨 “Razionalmente so che non c’è nulla da temere, ma non riesco a calmarmi.”

🗨 “Vorrei stare bene, ma è come se il mio corpo non mi ascoltasse.”

Per molte persone, questa è una delle parti più difficili dell’esperienza post-traumatica: avere a che fare con i tempi diversi del cervello razionale e di quello emotivo.

Dopo un trauma, il nostro sistema nervoso può rimanere bloccato in uno stato di allerta. Anche se la minaccia è passata, una parte profonda e automatica del cervello – quella legata alla sopravvivenza – continua a reagire come se il pericolo fosse ancora presente.

È una risposta che non parte dalla nostra volontà, ma da memorie implicite, spesso corporee, che non sono state ancora elaborate.

Non sei sbagliato: il tuo corpo si è adattato per proteggerti.

Sentirsi così non significa essere deboli o “rotti”. Al contrario: vuol dire che il tuo corpo ha imparato a proteggerti nel modo più efficace che conosceva. Ora, però, ha bisogno di nuove coordinate per tornare a sentirsi al sicuro.

È proprio qui che inizia il lavoro di ricostruzione.

Alcune strategie quotidiane per affrontare l’ansia post-traumatica sono:

1. Dare un nome a ciò che accade

Spesso, l’ansia dopo un trauma è vaga, indefinita, difficile da descrivere. Comincia da qui:

• Scrivi cosa senti nel corpo (tensione, nodo alla gola, fiato corto)

• Osserva quando accade (luoghi, persone, momenti della giornata)

• Prova a dirti: “Sto sperimentando una reazione post-traumatica. Non sono in pericolo adesso.”

Dare un nome all’esperienza è un primo passo per separarti da essa e tornare ad avere un senso di controllo.

2. Áncorati al presente: piccoli gesti di radicamento

Quando l’ansia si attiva, prova a riportare attenzione al qui e ora.

Ecco alcune strategie semplici:

• Sentire i piedi ben poggiati a terra

• Respirare lentamente e osservare il respiro che entra ed esce

• Guardarti intorno e descrivere 5 oggetti che vedi, 4 suoni che senti, 3 cose che puoi toccare

Questi esercizi aiutano il sistema nervoso a uscire dallo stato di emergenza e rientrare nella sicurezza del momento presente.

3. Coinvolgere il corpo in modo gentile

L’ansia ha bisogno di essere scaricata, ma con dolcezza.

Attività consigliate:

• Passeggiate a ritmo regolare

• Yoga, stretching, o movimenti lenti e consapevoli

• Respirazione diaframmatica o esercizi di coerenza cardiaca

Ricorda: non serve “fare tanto”, serve fare con presenza.

4. Dare spazio alle emozioni (senza esserne travolti)

L’ansia post-traumatica spesso nasconde emozioni congelate: paura, rabbia, dolore.

In terapia si lavora proprio per accoglierle senza esserne sopraffatti.

Puoi iniziare così:

• Scrivere ciò che provi, senza giudizio

• Parlare con qualcuno di fidato

• Concederti di “sentire” un’emozione alla volta, per piccoli tratti, in un luogo sicuro

5. Coltivare esperienze di sicurezza e relazione

Ogni giorno, chiediti:

• Cosa posso fare oggi che mi dà un piccolo senso di sicurezza?

• Con chi mi sento accolto e non giudicato?

• Dove posso lasciarmi essere, anche solo per qualche minuto?

L’ansia si scioglie quando il corpo sperimenta, lentamente, che non è più solo.

Non devi farcela da solo.

Se l’ansia è diventata una compagna quotidiana dopo un evento difficile, sappi che c’è una strada per uscirne.

Il percorso terapeutico – anche con strumenti come l’EMDR – aiuta a rielaborare le radici profonde di questa sofferenza e a costruire un nuovo senso di sicurezza dentro di sé.

👉 Se desideri approfondire, puoi contattarmi per un primo colloquio.

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Cos’è l’EMDR e come può aiutarti a superare un evento traumatico

Dott.ssa Maura Maria Schiavetta – Psicologa Psicoterapeuta, Milano

Quando il trauma si ripresenta, anche se è “passato”

Molte persone, dopo aver vissuto un’esperienza difficile o traumatica, raccontano di sentirsi “bloccate”. Anche se il tempo è passato, qualcosa dentro continua a tornare: ricordi vividi, emozioni forti, ansia improvvisa, difficoltà a lasciarsi andare.

In questi casi, la mente non ha ancora potuto integrare l’esperienza. È come se una parte fosse rimasta lì, ferma, in quel momento.

L’EMDR è una metodologia psicoterapeutica pensata proprio per aiutare le persone a rielaborare eventi traumatici o emotivamente intensi, favorendo un cambiamento profondo e duraturo.

Cosa significa EMDR?

EMDR è l’acronimo di Eye Movement Desensitization and Reprocessing, ovvero Desensibilizzazione e Rielaborazione attraverso i Movimenti Oculari.

È un metodo validato scientificamente, utilizzato in tutto il mondo, per trattare:

  • Traumi singoli (incidenti, lutti, aggressioni)
  • Traumi relazionali (abbandoni, trascuratezza, separazioni)
  • Eventi stressanti prolungati (bullismo, burnout, pandemia)

Come funziona una seduta EMDR?

Dopo una fase di preparazione e raccolta della storia di vita, si lavora su ricordi specifico che creano ancora disagio.

Attraverso stimolazioni bilaterali (movimenti oculari, suoni o tocchi alternati), la mente viene facilitata a elaborare l’informazione “bloccata”.

Il ricordo non viene cancellato, ma cambia la sua intensità: non fa più male come prima.

“Ora riesco a pensare a quell’evento senza sentirmi soffocare.”

Perché l’EMDR è così efficace

Quando viviamo un trauma, il cervello può andare in sovraccarico e non riuscire a elaborare normalmente l’esperienza.

L’EMDR aiuta il sistema nervoso a fare proprio quel lavoro che non è riuscito a concludere. È come se riattivasse le naturali risorse di autoguarigione della persona.

L’efficacia dell’EMDR è riconosciuta da:

  • Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)
  • American Psychological Association (APA)
  • Ministero della Salute italiano

EMDR e psicoterapia: un lavoro integrato

Nel mio approccio, l’EMDR viene integrato in un percorso di psicoterapia relazionale: il lavoro non si ferma al sintomo, ma considera la persona nella sua interezza.

Ogni seduta viene svolta con cura, rispetto e attenzione ai tempi individuali.

È un trattamento adatto sia per traumi evidenti, sia per esperienze che hanno lasciato un segno meno riconoscibile, ma profondo.

Vuoi sapere se l’EMDR è adatto a te?

Ricevo a Milano, in presenza, e anche online. Se desideri comprendere meglio come funziona l’EMDR o iniziare un percorso personalizzato, puoi contattarmi per un primo colloquio conoscitivo.

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Ansia dopo un trauma: come riconoscerla e superarla

[Immagine di Freepik]

Dott.ssa Maura Maria Schiavetta – Psicologa Psicoterapeuta, Milano

Quando l’ansia non è solo stress

Dopo un evento traumatico – che si tratti di un lutto, un incidente, una malattia, una violenza o un evento improvviso – l’organismo può entrare in uno stato di allerta continua e l’ansia può diventare una presenza costante. Spesso non si manifesta subito, perchè nonostante qualcosa si sia spezzato, molte persone continuano la loro vita come se nulla fosse. L’ansia può diventare una compagna silenziosa e invadente: può comparire settimane o mesi dall’evento, sotto forma di pensieri intrusivi, tensione, paura immotivata, insonnia, attacchi di panico, difficoltà di concentrazione.

Molte persone raccontano:

“Sto andando avanti, ma qualcosa dentro si è spezzato” .

“Non riesco a rilassarmi”.

“Sto sempre in allerta, anche quando sono al sicuro”

Non si tratta solo di stress. Questa condizione è nota come ansia post-traumatica, ed è una risposta del corpo e della mente che cerca di difendersi da un pericolo che, pur essendo finito, viene ancora vissuto internamente come presente.

Come si manifesta l’ansia post-traumatica?

L’ansia può assumere forme diverse, a seconda di come il trauma è stato vissuto e integrato. Alcuni segnali comuni sono:

  • Ipervigilanza: sentirsi sempre “sul chi va là”, anche in situazioni sicure
  • Tensione muscolare e difficoltà a rilassarsi
  • Insonnia o risvegli notturni con incubi o pensieri ricorrenti
  • Pensieri intrusivi: flashback, immagini o ricordi dell’evento che tornano senza controllo
  • Attacchi di panico, anche senza un motivo apparente
  • Evitamento: paura di affrontare luoghi, persone o situazioni legate al trauma
  • Difficoltà a concentrarsi, senso di disconnesione o distacco emotivo

In alcuni casi, può svilupparsi un vero e proprio Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD). In altri, i sintomi si manifestano in modo più sottile ma cronico, influenzando il benessere quotidiano

Perché l’ansia non “passa da sola”

L’organismo ha una naturale capacità di guarigione, ma quando un evento è troppo intenso o arriva in un momento di fragilità, il sistema nervoso può rimanere “bloccato” in uno stato di allerta. È come se una parte della persona vivesse ancora nel momento del trauma, anche a distanza di anni.

In questi casi, il lavoro psicoterapeutico non serve a “cancellare il passato”, ma ad aiutare la mente e il corpo a rielaborare l’esperienza e ricollocarla nel tempo: nel passato, dove appartiene.

Come la psicoterapia può aiutare

Il percorso terapeutico permette di:

  • Dare un senso all’esperienza vissuta, riconoscendo ciò che ha fatto male e come ha inciso
  • Esplorare le emozioni bloccate o represse (paura, rabbia, vergogna…)
  • Lavorare sui pensieri negativi legati al trauma (es. “è colpa mia”, “non sarò mai più al sicuro”)
  • Recuperare il senso di autoefficacia e sicurezza interiore
  • Ritrovare fiducia nei propri confini, nel corpo, negli altri

Uno degli approcci più efficaci per il trattamento dell’ansia post-traumatica è l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), una metodologia validata scientificamente che favorisce l’elaborazione dei ricordi disturbanti in modo profondo e duraturo.

EMDR: uno strumento per superare il trauma

Nel mio lavoro, utilizzo l’EMDR quando l’esperienza traumatica è ancora “viva” nella persona. Attraverso una serie di movimenti oculari o stimolazioni bilaterali, il cervello viene aiutato a desensibilizzare il ricordo traumatico, riducendo l’impatto emotivo e permettendo una rielaborazione più integrata.

Molti pazienti riportano che, con l’elaborazione degli eventi attraverso il metodo EMDR, riescono a pensare all’evento senza sentirsi sopraffatti, e ad aprire nuovi spazi di consapevolezza e fiducia.

Psicoterapia per ansia a Milano e online

Se ti riconosci in queste parole, se l’ansia non ti lascia respirare, non sei solo/a. Ci sono strumenti per ritrovare un senso di calma e sicurezza. E chiedere aiuto è il primo passo per iniziare a stare meglio.

Vuoi parlarne con me?

Puoi contattarmi per un primo appuntamento o per saperne di più sulla cura dell’ansia dopo un trauma.

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5 consigli pratici per spiegare ai bambini il Coronavirus

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In questo momento di crisi dovuto al coronavirus, è necessario riflettere su come comunicare ai bambini le notizie di quanto sta succedendo e del perchè la quotidianità sta cambiando (non si va a scuola, i genitori sono a casa dal lavoro o lavorano da casa, si va più spesso dai nonni, non si può fare sport, ecc.).
1) I bambini hanno bisogno di informazioni chiare e vere, comunicate e filtrate in base all’età in modo da essere comprensibili.
2) E’ importante non esporre i bambini a immagini e notizie non adatte al loro livello di
comprensione.
3) Scegliere uno o due momenti al giorno da dedicare insieme alla visione di notiziari o
ricerca web di notizie, per spiegare cosa sta succedendo e rassicurare i bambini attraverso un focus realistico e orientato agli aspetti positivi (per es. spiegare che tante persone si stanno occupando del problema per la nostra sicurezza)
4) Mantenere delle abitudini: i bambini possono continuare a fare le cose da bambini come giocare, parlare di cose divertenti, fare i compiti e imparare cose nuove.
5)​ Dare sicurezza: è importante che i bambini non vedano solo volti spaventati e allarmati. Se riuscite a calmare voi stessi come genitori, darete sicurezza al bambino. I bambini notano le incongruenze dei grandi e apprendono dall’esempio. Se non riuscite a calmarvi, chiedete supporto ai familiari, agli amici, alla comunità ed eventualmente agli specialisti.
Lo psicologo Alberto Pellai ha condiviso un racconto molto utile da leggere ai bambini che spiega il coronavirus:
È un virus. È così piccolo che lo si può vedere solo in laboratori speciali con microscopi speciali. Ecco perché ci spaventa tanto. Perché è invisibile a occhio nudo. Da sempre noi esseri viventi abbiamo paura di ciò che ci può fare male e che non si può vedere. Succedeva all’uomo delle caverne che andava a caccia di animali feroci che erano nascosti nelle foreste. Lui non li vedeva e doveva andarli a cercare. Loro stavano appostati in luoghi nascosti e, per non essere uccisi, potevano ucciderlo. È lì che il nostro cervello ha imparato ad accendere l’emozione della paura. Ci ha dotato della capacità di avvertire un pericolo che non si vede. Ci fa sentire l’allarme quando ancora non abbiamo davanti a noi il pericolo. Così siamo più preparati ad affrontarlo quando ci si presenta davanti.

 

La paura è come la sirena dell’ambulanza che suona dentro di te. La senti e ti avverte che qualcosa di grave sta per succedere. Bisogna correre all’ospedale per evitare che le cose precipitino. Il coronavirus, oggi, fa suonare tutte le sirene d’allarme del mondo. Ne parlano in continuazione alla televisione. Ci sono adulti più tranquilli, altri in ansia, altri molto spaventati: e poi c’è gente con i nervi saldi che sta lavorando giorno e notte per combattere questo rischio. Purtroppo hanno cancellato le gite scolastiche. Non si fanno più gli allenamenti sportivi. Sembra di stare in guerra, ti viene da pensare. E così provi una paura difficile da addomesticare. Non posso togliertela quella paura, ma posso dirti che, mentre è giusto sentire l’allarme per qualcosa che ci minaccia, allo stesso tempo dobbiamo imparare a prendere le cose nella giusta misura e per quello che sono.

È vero: il coronavirus è un nuovo agente di infezione che per la prima volta sta colpendo gli esseri umani. Prima era presente solo nel corpo di alcuni animali. È vero: il coronavirus ha contagiato migliaia di persone in Cina e nel mondo e ora è presente nella nazione in cui vivi anche tu. È vero : ci sono persone infettate dal coronavirus che sono morte. Però, affermato che queste sono tre verità che tutti sappiamo, ecco altre verità che, in questo clima di allarme, vengono raccontate, ma le persone colgono molto meno. Il contagio al momento ha colpito un numero molto ristretto di persone. La malattia si è localizzata in alcune zone precise, chiamate focolai di infezione. Quando è stata identificata la zona del focolaio, gli esperti hanno preso tutte le precauzioni possibili per non farlo uscire da lì. È come un animale in trappola. Ecco perché gli abitanti di alcuni paesi e città sono oggi in isolamento e quarantena. Viene chiesto loro di non uscire dal loro territorio, così da non trasportare il virus in luoghi in cui esso ancora non è arrivato.

 

La malattia prodotta dal coronavirus è simile ad un’influenza. Fa tossire, starnutire, dà febbre. In molte persone il virus non produce nemmeno questi sintomi. Solo pochissime persone si ammalano con sintomi molto più gravi, come la polmonite. Ad oggi, il 2% delle persone affette dal virus è morto. Vuol dire che di tutti gli ammalati, muore, purtroppo, una persona su 50. E sappi che tra i malati non ci sono praticamente bambini. Ovvero, sembra che chi ha la tua età, ha una capacità naturale di resistere all’attacco del virus. Che, quindi, per i bambini non rappresenta una reale minaccia.

 

Inoltre, considera che: nei luoghi in cui c’è l’infezione, ci sono migliaia di persone. Di quelle migliaia di persone, pochissime contraggono l’infezione, di quelle pochissime solo 1 su 50 muore. È tristissimo sapere che una persona muore per una malattia. Però è importante che tu consideri che la paura che senti, riguarda una minaccia che ha pochissime probabilità di riguardare la tua vita. Ma tutto il mondo, proprio per evitare, che questo accada, oggi si sta dando da fare per evitare che questa infezione si diffonda. È fondamentale perciò che le persone vengano allertate e allarmate. Perché così percepiscono un rischio e imparano a fare tutto quello che serve per evitare che esso si trasformi in un pericolo crescente. È quello che hanno già fatto con te i tuoi genitori da quando sei nato. Ti hanno insegnato che prima di attraversare la strada, devi aspettare che il semaforo diventi verde. Altrimenti rischi di essere tirato sotto da un’automobile. E questo ti ha permesso di imparare ad andare in giro sicuro per il mondo, sapendo come evitare gli incidenti. Ti hanno insegnato che non si può mangiare solo cotoletta e patatine. Perché il tuo corpo ha bisogno anche di fibre e vitamine che trovi nella frutta e nella verdura. Solo così puoi mantenere un corpo sano. Ti hanno insegnato che quando navighi in rete non devi fornire le tue generalità – nome, cognome e indirizzo – a nessuno, perché non sai chi c’è dall’altra parte.

 

Per il coronavirus è un po’ la stessa cosa. Il mondo adesso viene avvertito che la fuorì c’è un virus di cui non conosciamo molte cose. E perciò ce ne dobbiamo difendere. Ogni giorno nei laboratori, gli scienziati stanno lavorando per trovare un vaccino e una cura. In ogni momento, le persone che ci governano stanno promuovendo leggi per tutelare la nostra salute. In tutti gli ospedali il personale medico e paramedico è pronto a curare le persone che si ammaleranno. E i malati hanno il 98% di probabilità di guarire. Così come, al momento, la quasi totalità della popolazione ha ottime probabilità di non ammalarsi. Gli esperti di prevenzione ci dicono di fare poche cose che sono molto importanti: — se ti viene da tossire e starnutire, fallo nel cavo del gomito. In questo modo, non solo si riduce il rischio di diffondere il coronavirus, ma qualsiasi altro virus respiratorio — lavati bene le mani, sopra, sotto e tra le dita, con il sapone liquido, per un tempo di alcune decine di secondi. Potresti cantare per intero «tanti auguri a me» mentre ti lavi le mani, così riesci a far durare l’operazione il giusto tempo e nel frattempo ti dici una cosa bella e ti metti «dentro» un po’ d’allegria — usa fazzoletti di carta e cestinali subito dopo — non metterti le mani in bocca, negli occhi, nel naso (ma questo lo sapevi già!) e non mangiarti le unghie. Anzi tienile corte e curate.

 

Ecco tutto qui: questo è quello che puoi fare tu in prima persona per far fuori quel mostriciattolo fantasma, chiamato coronavirus. Non si può dire nulla di più. Avere paura oggi è naturale. Siamo spaventati e dobbiamo difenderci da qualcosa che non abbiamo ancora imparato bene a conoscere e affrontare. Ma l’uomo, nel corso della storia ha saputo fare cose straordinarie. Ha imparato a vincere malattie ben più terribili, ha inventato missili che possono portarci sulla luna, ha scoperto come trasformare la luce del sole in energia che fa accendere la luce di notte nelle nostre case, quando fuori c’è il buio. La paura ci fa vedere tutto buio e cupo. Ma tu non perderti nel buio. Affidati al lavoro di milioni di persone che oggi stanno lavorando e combattendo per vincere la battaglia contro il coronavirus. Impara a immaginarle tutte insieme. Un esercito infinito di milioni di uomini e donne – medici, ricercatori, scienziati, infermieri, forze dell’ordine – contro un invisibile microscopico virus. Ce la faremo, vedrai, ce la faremo.”

(Alberto Pellai, Medico e Psicoterapeuta. Ricercatore presso il Dipartimento di scienze biomediche dell’Università degli studi di Milano – 23 febbraio 2020. Fonte: http://www.corriere.it)

Benessere emotivo nella terza età

senior-3336451_1920Come professionista, mi capita di affrontare dei percorsi psicologici con persone della terza età, perchè dai 60 anni in su, ci sono degli eventi che possono minare il proprio benessere emotivo e che richiedono di ritrovare un nuovo equilibrio:

  • la menopausa/andropausa
  • l’andare in pensione
  • la nascita di un nipote
  • aspetti legati alla condizione fisica/di salute
  • aspetti relazionali della coppia

L’andare in pensione, ad esempio, può mettere in crisi la propria identità, perchè dopo molti anni in cui si vive quotidianamente la parte lavorativa, ci si trova a casa a doversi riorganizzare. È importante che si riesca a mantenere un’aspetto di socialità, perchè è possibile sentirsi giù di morale quando non si hanno più tante cose da fare come prima e non si è ancora trovato il modo per avere un ruolo o un compito. Spesso avere un ruolo o sapere che ci stiamo impegnando in qualcosa dà un senso alla nostra vita, e quando ne sentiamo la mancanza possiamo soffrire. Il sentirsi utili si riflette anche sull’autostima.

Con l’andare in pensione, aumenta il tempo passato con il partner e spesso questo causa la rottura di vecchi equilibri e l’apertura di nuove discussioni. E’ utile in questi casi ritrovare nuovi modi di stare insieme e ridefinire il progetto di coppia.

L’andare in menopausa per una donna, può essere vissuto con difficoltà rispetto ai cambiamenti fisici e ormonali che comporta e alla questione della femminilità: la donna è alle prese con nuovi significati legati alla propria identità e al proprio ruolo. Inoltre oggi sempre di più, con l’aumentare dell’età in cui si ha il primo figlio, l’andare in menopausa coincide con l’adolescenza dei figli e questo ancor di più incide sulla rappresentazione di sè.

La nascita di un nipote può portare a cambiamenti nelle relazioni e a nuove richieste da parte dei figli, richieste di vicinanza o lontananza. Interagire in questo nuovo e, a volte fragile equilibrio, può essere un problema. Anche l’avere a che fare con un neonato oggi, può portare con sé una sensazione di inadeguatezza o far riaffiorare ricordi passati rispetto alla relazione con il proprio figlio.

La condizione fisica può non essere più quella di una volta e può capitare di entrare in contatto con l’ambiente medico per visite, utilizzo di terapie farmacologiche o di sottoporsi a interventi, grandi o piccoli. L’aspetto psicologico può essere sottovalutato, invece è molto importante curare questa parte, per sentirsi più forti ad affrontare le sfide che ci troviamo davanti con più sicurezza.

Se vuoi confrontarti su questi temi, puoi prenotare una visita con la psicologa  presso lo Studio di Psicologia di via Marghera 6/B a Milano, chiamando  il numero 3381213793 o lasciando qui sotto la tua richiesta e le tue preferenze di orario.

 

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In casi particolari, quando le persone anziane hanno oggettiva difficoltà a spostarsi, a causa di vari impedimenti, la psicologa è disponibile ad effettuare visite domiciliari.

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