Cascate di Petrohue – Cile
Quando si parla di “famiglia” penso subito alla mia famiglia di origine e a quella che mi sono costruita, ma mi viene anche in mente la mia “famiglia cilena”. Sì, perché quando sono andata in viaggio di nozze in Cile, ho passato qualche giorno tra cui il Natale a casa di amici e dei loro genitori. Proprio la notte di Natale, dopo aver grigliato in pantaloncini corti, ci siamo spostati in salotto ad aprire i regali, semplici regali, non quelli a cui siamo abituati noi. Ricordo che c’era un pacchetto sotto l’albero anche per noi, con alcune cartoline rappresentative del Cile. Dopo aver aperto i regali, quella famiglia ha anche aperto discorsi importanti: il papà Jorge ringraziava il cognato per essere stato d’aiuto in quell’anno difficile e lo ringraziava per averlo sentito così vicino emotivamente; ringraziava anche la figlia Natalia, per essere quello che è, per tutto il percorso che ha fatto nella vita (la sua esperienza in Italia, il lavoro che si era costruita e che amava).
Pur non conoscendo bene lo spagnolo, capivo tutto, talmente tanto che dopo qualche minuto stavo già piangendo, tra lo stupore e la preoccupazione della mamma Ana Marìa.
Non piangevo perché stavo male, ma per la sensazione di essere “senza pelle”, di vivere in diretta un’emozione, una condivisione, un modo di “fare” famiglia davvero speciale.
Non voglio dire che questa sia una famiglia perfetta, anzi. Ne hanno passate di tutti i colori e diversi sono stati i momenti difficili, le ansie, e le problematiche di qualcuno rischiavano di mettere seriamente nei guai tutti i componenti. I problemi ci sono, sempre, ma è il modo in cui li si affronta, la fiducia e l’amore che mettiamo che fa la differenza.
Quella a cui assisto generalmente nel mio lavoro è una situazione diversa: la famiglia come luogo in cui cresce la rabbia, l’insoddisfazione, la mortificazione, l’incomprensione, la solitudine. Spesso non ci si parla, si ha paura di venire a contatto con la fragilità dell’altro (perché è la propria) e si fa finta di niente, non si ascolta, non ci si mette in discussione, non si cresce.
Indipendentemente da dove viene ognuno, da quello che ha provato, da quello che ha vissuto, è però possibile non riproporre più le solite modalità, le strade conosciute, i soliti modi di entrare in relazione e che ci fanno soffrire. Anche se abbiamo vissuto una certa esperienza nel passato, non siamo obbligati a rimanerci, non siamo obbligati a ripetere. Lo facciamo solo perché diamo per scontato che sarà sempre così, che non esista altro modo.
Forse non ci abbiamo mai pensato veramente.
E allora chiediamocelo:
Cosa vogliamo davvero?
Come vogliamo che vada quel rapporto?
Come vogliamo stare con… nostro marito,
nostra moglie,
nostro figlio,
nostra madre, ecc.?
Come vogliamo la nostra famiglia?
Se lo sappiamo, sappiamo anche dove puntare e cosa superare in noi stessi per poterlo realizzare. Qualcosa dobbiamo lasciare andare però: spesso è quella parte di noi che, anche se ci siamo molto affezionati, ci fa soffrire.
Forse non ci abbiamo mai pensato veramente.